Il calcio italiano “non rischia la giocata”
Il calcio italiano sta cercando un’identità nuova e precisa, basata su princìpi proattivi e di dominio del gioco, tentando di prendere quella strada che l’Europa ci indica già da tempo. Alcuni dati, tuttavia, ci dicono che siamo ancora lontani da quest’obiettivo. Ma siamo sulla strada giusta?
Lo Slalom, newsletter quotidiana sul mondo dello sport a cura di Angelo Carotenuto, ha analizzato in un recente numero diversi dati provenienti dal nostro campionato. Dai punti chiave si evince come la maggior parte del possesso palla delle squadre di Serie A avvenga nella propria metà campo e come la percentuale di passaggi progressivi – passaggi che spostano la palla verso la rete avversaria di almeno 9 metri dal suo punto più lontano nell’arco degli ultimi 6 tocchi e passaggi completati all’interno dell’area di rigore avversaria – sul totale dei passaggi effettuati sia molto limitata. Da qui Slalom ha dedotto, inoltre, come la grande mole di passaggi interlocutori, ossia passaggi non progressivi, sia strettamente collegata alla penuria di dribblatori o comunque alla tendenza a sfruttare poco questo fondamentale all’interno del nostro campionato.
Possesso sterile
Il dato dei passaggi progressivi può essere letto come sintomatico di una fase di transizione. È evidente come negli ultimi anni il calcio italiano stia cercando di adottare un modello diverso, più improntato al possesso e alla costruzione. Inzaghi, Pioli, De Zerbi ed ora Dionisi, Italiano ed Andreazzoli sono i principali rappresentati di questa voce. A volte tuttavia affiorano ancora concetti radicati nella nostra tradizione calcistica, come l’idea della giocata sempre in sicurezza. Da qui la visione del passaggio e del possesso in generale come strumento per ridurre il rischio e da rendere il meno rischioso possibile, più che uno strumento propedeutico o direttamente finalizzato alla manovra offensiva. Non è un caso che in cima alla classifica dei passaggi progressivi, nelle prime tre posizioni, figurino due stranieri, come Maxime Lopez e Brozovic. Due giocatori che, grazie alla fiducia nei propri mezzi ed al coraggio del proprio gioco, suscitano ammirazione.
In Serie A si dribbla poco?
Analizzando i numeri dei top10 dribblatori (con almeno 500’) di Serie A e Premier League, si nota come, contrariamente a quello che si penserebbe, le differenze siano minime (questo se escludiamo quel fenomeno dell’arte del dribbling Allan Saint-Maximin). Anzi, tra questi due gruppi si evidenzia come il nostro campionato abbia anche un numero e una percentuale di dribbling riusciti superiore. Il problema si pone tuttavia quando si deve scorrere la classifica per cercare giocatori italiani: Chiesa (14°), Caprari (16°) e Zaccagni (17°) sono i migliori italiani per dribbling effettuati, mentre è Zaniolo (11°), seguito ancora da Caprari (12°) e Zaccagni (14°), il miglior italiano per dribbling riusciti.
Strada giusta
La sensazione è che il campionato italiano sia sulla strada giusta, sempre più squadre, anche provenienti dalla serie cadetta, cercano di adottare un modello diverso, più basato sulla ricerca di un’identità precisa e su saldi principi di gioco. Costruzione, possesso, associatività e rotazioni. D’altronde, il percorso in Europa è già stato segnato, con risultati efficaci in termini sportivi, societari ed economici. Alcuni dati, tuttavia, ci segnalano come la strada sia ancora lunga. La poca attitudine a determinare da parte dei giocatori italiani, attraverso filtranti audaci o dribbling coraggiosi, ci indica probabilmente come certi concetti, legati alla minimizzazione del rischio, siano ancora ben saldi nel nostro calcio, riflettendosi soprattutto nella formazione dei nuovi calciatori a livello giovanile. Problemi atavici, di cui progressivamente stiamo prendendo coscienza ma di cui ne stiamo pagando tutt’ora le conseguenze, risiedono proprio in questo settore, in cui la tecnica individuale e la capacità di problem solving – elementi cardine, ad esempio, della scuola spagnola – spesso sono messi in secondo piano rispetto alla tattica individuale e di reparto e di tutte quelle dinamiche che, sì, formano un calciatore affidabile, ma allo stesso tempo prevedibile e lineare.
di Marco Piccolroaz